Il Climate Change Performance Index (CCPI) 2021 pubblicato da Germanwatch in collaborazione con NewClimate Institute (NCI) e Climate Action Network (CAN), presenta un quadro a due volti rispetto ai progressi compiuti dall’Unione europea nell’impegno per il clima, una performance abbastanza preoccupante dell’Italia e molto negativa per gli USA.
Le 4 categorie considerate dal CCPI sono: emissioni di gas serra (40%), energie rinnovabili (20%), uso di energia (20%) e politica climatica (20%). Quest’ultimo indicatore si basa su valutazioni di esperti da parte di ONG e think tanks dei diversi Paesi. All’interno delle categorie il CCPI valuta anche in che misura ogni Paese sta intraprendendo azioni adeguate per rispettare davvero l’obiettivo globale dell’Accordo di Parigi di limitare il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2° C.
Come da tradizione, il nuovo CCPI non assegna i primi tre posti: si parte dal quarto della Svezia, che resta in testa alla classifica per il quarto anno consecutivo. Ma, secondo il rapporto, “anche la Svezia non è un “modello di ruolo climatico. Come ogni altro paese fino ad ora, non è ancora sulla buona strada per il raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi». La Svezia si piazza comunque prima in tutti e tre i gruppi nei quali è divisa la classifica perché sta stabilendo standard in materia di emissioni di gas serra, energia rinnovabile e politica climatica. Ma l’elevatissimo consumo di energia pro capite (49° posto) impedisce al Paese di ottenere una valutazione ancora migliore.
Nella classifica generale seguono Regno Unito (5°) e Danimarca (sesta). A sorpresa, tra i primi 10 ci sono 3 Paesi in via di sviluppo: Marocco (7°), Cile (9°) e India (10°). Il Portogallo, che passa a dal 25esinmo al 17esimo posto, e la Nuova Zelanda, che risale dal 2 37esimo al 28esimo posto e tallona l’Italia, sono i Paesi ad aver fatto il più grosso salto in avanti. Bene abnche il Giappone post-Fukushina che risale 6 posizioni arrivando però a un ancora basso 45esimo posto.
L’Italia si ferma al 27esimo posto, scendendo un gradino rispetto al 26° del 2019, a causa del rallentamento dello sviluppo delle rinnovabili (31esima in qeusta classifica) e a una politica climatica nazionale ritenuta inadeguata agli obiettivi di Parigi, a partire dal Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC), nato già inadeguato e che prevede solo un taglio delle emissioni del 37% entro il 2030, con una riduzione media annua di appena l’1,7%, lontanissima dal 55% dell’Unione europea e con la quale raggiungere le emissioni net zero nel 2050 sarebbe fantascientifico.
Pessime performances per Slovenia (dal 44° al 51°), Spagna (dal 34° al 41°), il Belgio (dal 35° al 40°) e Grecia (dal 28° al 34°). Ancora una volta, la performance degli Stati Uniti è disastrosa: per la seconda volta consecutiva, e speriamo l’ultima dopo l’infausta presidenza di Donald Trump, gli Usa si classificano addirittura sotto l’Arabia saudita e l’Iran nell’Index e in tutte e 4 le categorie eccetto le energie rinnovabili (“bassa”), gli USA finiscono in fondo alla tabella (“molto bassa”) sono l’unico Paese, oltre l’Australia e l’Algeria, a ricevere la valutazione di “molto bassa” sia per la politica climatica nazionale che per quella internazionale.
Il rapporto esprime però fiducia per il futuro degli USA: «I piani del presidente eletto Biden offrono grandi opportunità per migliorare in modo significativo questa valutazione, ma solo se le promesse della campagna elettorale verranno effettivamente mantenute. Data la maggioranza ancora poco chiara al Senato, non è chiaro quanto di questo verrà attuato».